L’operazione del Nucleo per la Tutela del Patrimonio culturale di Udine fra Grado e la foce dell’Isonzo.
A Punta Sdobba, nelle acque torbide e limacciose del canale Isonzato, all’incrocio con l’Isonzo, là dove il fiume va a morire nelle acque dell’Adriatico, i resti del pontone armato della prima Guerra mondiale compaiono d’improvviso come un muro alto due metri di metallo arrugginito. I carabinieri del Nucleo Subacquei di Genova, alla luce delle torce nonostante la bassa profondità, esplorano ciò che un secolo fa era – come stabilirà più tardi il rilievo tecnico-subacqueo della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia – un barcone in lamiera lungo diciotto metri, largo sei, quasi certamente autoaffondato di traverso al canale nelle concitate fasi della fuga degli italiani da Grado dopo la disfatta di Caporetto, per creare ostacolo al nemico in arrivo. Non è l’unica testimonianza di quei lontani eventi. A pochi metri dall’acqua, sulla terraferma, i ruderi di una postazione in cemento costruita su un antico fortino napoleonico, e ora inghiottiti da una folta vegetazione, ricordano che questo era il punto estremo della prima linea italiana fino alla caduta di Caporetto nel novembre del 1917.