In apnea o con le bombole, sono sempre più numerosi gli italiani che si immergono. Una nuova medicina specialistica spiega quali rischi si corrono e come evitare guai
di SANDRO IANNACCONE
ESTATE, tempo di immersioni. Che sia apnea, pesca sportiva, esplorazione dei fondali o escursioni tecniche a elevata profondità, scendere sott’acqua piace sempre più. Sebbene non ci siano dati precisi, dal momento che non esiste un’anagrafe dei subacquei, si stima che nell’ultimo decennio il numero di persone che nel nostro paese compie immersioni tecniche o professionali con assiduità sia aumentato, passando da mille a circa ventimila l’anno.
E sarebbero molti di più, un milione circa, gli italiani che insieme a pinne, fucile e occhiali mettono nel borsone anche muta e bombole per le cosiddette immersioni “ricreative”. I cui rischi per la salute, però, sono dietro l’angolo. O sotto lo scoglio, per usare una metafora più appropriata.
È per questo che in Italia la classe medica sta cercando di non farsi trovare impreparata: “Al momento, la medicina subacquea – spiega Cesare Beghi, docente di Cardiochirurgia all’università dell’Insubria – non è ancora inclusa nel novero delle specializzazioni mediche ufficiali, anche se le problematiche cliniche connesse alle attività di immersione lo renderebbero auspicabile”.
Proprio per far fronte alla crescente richiesta di specialisti del settore, l’università dell’Insubria ha appena inaugurato, con la collaborazione della Marina Militare, un master universitario unico nel suo genere, completamente dedicato alla medicina subacquea e iperbarica.