Fare prima l’immersione più profonda è il mantra che ci viene ripetuto da praticamente tutte le didattiche; violare questa “regola” è uno dei più grandi tabù della subacquea.
Ma è proprio così?
Forse no, o almeno non sempre come emerge dai risultati di un convegno organizzato dall’Accademia Americana di Scienze Subacquee e dallo Smithsonian Institution dal quale sono tratte le informazioni per questo articolo. L’istituzione dello Smithsonian è stata fondata nel 1846 con fondi lasciati negli Stati Uniti da James Smithson. Lo scopo dell’istituzione è “l’aumento e la diffusione della conoscenza” ed è anche un centro di ricerca dedicato all’istruzione pubblica tramite ricerche e borse di studio.
Decompressione
Iniziamo con un breve accenno alla teoria decompressiva. Durante la respirazione il solo gas metabolizzato è l’ossigeno. Il rimanente (nel caso dell’aria l’azoto) non partecipa ad alcuna reazione fisiologica. A pressione atmosferica, per semplicità diciamo al livello del mare, il nostro organismo è in uno stato di saturazione per l’azoto, ad ogni respiro questo gas è semplicemente ventilato dentro e fuori dai polmoni. All’aumentare della pressione ambiente, durante le immersioni, la pressione parziale dell’azoto (e di ogni latro gas inerte presente nella miscela respiratoria) cresce causando un aumento della sua dissoluzione nei tessuti seguendo la legge di Henry. Durante la risalita questo eccesso di gas torna in fase gassosa e viene eliminato dai polmoni. I problemi iniziano quando il processo genera bolle abbastanza grandi da interferire con la circolazione del sangue causando blocchi locali. In questo caso il subacqueo è vittima della malattia da decompressione. Per evitare questi problemi, limiti di tempo, profondità e velocità di risalita sono stati sviluppati sottoforma di tabelle di immersione o di algoritmi per i computer subacquei. CONTINUA…