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Relitto Haven, un’oasi di pesci dopo il disastro

Il fatto della settimana. A 27 anni di distanza, uno dei più grandi disastri ambientali del Mediterraneo ha creato un’oasi per la flora e la fauna marina, e turismo per i subacquei

«La Haven è un’isola di vita in mezzo al mare, un paradiso non solo per i subacquei ma per la natura stessa». Parola di Gianni Risso, classe 1944, storico foto sub tra i più profondi conoscitori della super petroliera adagiata sul fondale di Arenzano. Sembra incredibile potere associare queste parole al relitto che testimonia uno dei più gravi disastri ambientali del Mediterraneo: difatti il 14 aprile 1991 la Haven affondava nel mare antistante Arenzano dopo l’esplosione di tre giorni prima e lo sversamento in mare di migliaia di tonnellate di greggio (tra le 35mila e le 52mila, secondo il tribunale di Genova con sentenza del 18 febbraio 1998) durante la deriva e il successivo traino. Eppure a 27 anni dal disastro il relitto si è trasformato in un’oasi per la flora e la fauna marina e per i subacquei.

L’etimologia stessa del nome associa in inglese antico il termine haven alla definizione di porto, ma in senso più esteso anche di rifugio. La Haven è diventata insomma – nomen omen- una sorta di isola felice per pesci e freediver: un destino tanto diverso dall’incubo che Risso, oggi presidente del Ci.Ca.Sub Bogliasco Seatram, ricorda ai tempi della sua prima immersione: «Tornando al 1991 sembra impossibile che la situazione si sia trasformata in maniera così significativa. Pochi mesi dopo il disastro eravamo scesi sul fondale nella zona di mare vicina alla nave. Il greggio si era depositato come un tappeto sul fondale e già a dieci metri di profondità venivano prelevati strati di catrame molle, ma solido. Era dappertutto: tra le posidonie, ovunque. Lo raccoglievano nei secchi da muratore e pulivano così il fondale. La balneazione era ancora vietata». Erano i tempi dei primi interventi di emergenza, volti a salvare il salvabile: pulire le spiagge e recuperare il greggio nella fascia di mare costiera. A distanza di un anno invece Risso prese parte alla prima vera e propria immersione sul relitto: «Si decise di tagliare la parte alta del cassero perché i fumaioli avrebbero potuto interferire con la navigazione delle navi dal pescaggio più importante. Io scesi per fotografare le operazioni e mi ricordo che lo spettacolo era davvero desolante. La nave era bruciata: si presentava annerita, eppure sostanzialmente intatta. Ci muovevamo a una profondità compresa tra i 22 e i 25 metri. Gran parte del petrolio era già stato estratto dalle stive, ma c’erano ancora dei residui. Ogni tanto comparivano delle macchie in superficie, si vedevano salire piccole bolle scure». Per il ritorno della vita sulla Haven non bisognò però aspettare molto: «Era iniziata l’opera di decomposizione dei residui di idrocarburi ad opera di batteri ossidanti, una prima spontanea bonifica naturale». Di lì a poco la scena si animò di una vitalità sorprendente: «Iniziammo a vedere i primi insediamenti di ostriche già dopo un paio di anni. Poi fu la volta degli spirografi e successivamente dei crinoidi. A un certo punto morirono le ostriche e lentamente la nave venne colonizzata da tutte quelle meravigliose specie che ci sono ora. Mancano solo le gorgonie, ma per i pesci il relitto invece è molto attrattivo». A 27 anni dal disastro, tra i pesci sono ormai stanziali saraghi fasciati, dentici, barracuda, acciughe, boghe e ancora anthias, gronghi, murene, aragoste, castagnole, donzelle, orate e bavose.

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