Pavlopetri, la città inabissata del Peloponneso
Nel mar Egeo, tra la Grecia e l’isola di Cervi, gli archeologi hanno scoperto i resti di una civiltà antecedente ai miti omerici
di Riccardo Bottazzo
Le costruzione di Pavlopetri, la città inghiottita dal mare Egeo
Una città perduta in fondo al mare. Una città con tanto di case, strade, palazzi. Una città che risale ad una remota civiltà, tanto lontana nel tempo da essere stata dimenticata anche dai nostri miti più antichi. Quanti libri, film o fumetti ci hanno appassionato e regalato emozioni seguendo questa traccia narrativa? Il mito dell’Atlantide sommersa risale agli albori della civiltà dell’uomo e si sempre è rivelato un fertile terreno per l’immaginazione di innumerevoli romanzieri, sceneggiatori, disegnatori, registi.
Così è stato e, probabilmente, sempre sarà, dai tempi di Gilgamesh a quelli di Steven Spielberg. Ma davvero si tratta solo di poetiche fantasie? Ebbene no! Le città perdute, inghiottite dal mare e recentemente scoperte grazie alle nuove potenzialità dell’archeologia subacquea, esistono davvero. E la più famosa e ben conservata di tutte è proprio nel nostro Mediterraneo, nei mari di Grecia. Il suo vero nome, nessuno lo sa. Gli archeologi la chiamano Pavlopetri.
Più esattamente Pavlopetri – che in greco significa Paolo e Pietro – è il nome della semisconosciuta isoletta che sorge vicino al ritrovamento. Siamo ad un tiro di schioppo dalla costa di Pounta, il bordo più meridionale del “dito” più a sud di quella bizzarra penisola, i cui contorni sembrano disegnare una mano aperta, che è il Peloponneso.
Nessuno si ferma a Pavlopetri. Solo il traghetto che porta all’isola che noi chiamiamo Cervi (e i greci Elafonisos) ci passa vicino nel suo ricorrente andare. Nemmeno i pescatori ci si fermavano volentieri nelle sue acque. Sapevano bene che, sotto quel mare che ti abbaglia di azzurro, c’era qualcosa di strano. Qualcosa che aveva il brutto vizio di trattenere e danneggiare le loro reti.
Come spesso accadde, fu il caso a rivelare all’umanità intera cosa fosse quel “qualcosa”. Nel 1967 un gruppo di scienziati dell’Institute of Oceanography dell’Università di Southampton, guidati dall’oceanografo e subacqueo inglese Nicholas Flemming, stava svolgendo nella zona delle ricerche sulle variazioni di dislivello del Mediterraneo e decise di scendere proprio a ridosso dell’isolotto di Pavlopetri per piazzare sul fondale della strumentazione scientifica.
Gli occhi gli devono aver sbattuto sulla maschera quando si accorse di trovarsi nel bel mezzo di una città sommersa! Una città, la cui esistenza non era ipotizzata nemmeno dei miti pre-omerici.
Così doveva essere Pavlopetri, secondo un documentario della Bbc
Quella che i giornali dell’epoca chiamarono la Pompei subacquea divenne presto una palestra per le prime spedizioni scientifiche della disciplina scientifica che si stava forgiando in quegli anni: l’archeologia subacquea. Furono gli archeosub inglesi, prima dell’Università di Cambridge e poi guidati dal dottor Jon Henderson dell’Università di Nottingham CONTINUA…